Affrontare la paura da soli: un nonsenso per la psiche. Il sistema di attaccamento ai tempi del coronavirus.

Affrontare la paura da soli

Affrontare la paura da soli non è quello che istintivamente fanno gli esseri umani. Gli esseri umani infatti sono geneticamente programmati per cercare la vicinanza di qualcuno nel momento in cui hanno paura o si sentono in pericolo. Poi ci potremo abituare ad esprimere i nostri bisogni oppure no, ma istintivamente nel momento in cui abbiamo paura cerchiamo un altro. Le persone che poi verranno considerate persone sicure sono quelle capaci di chiedere aiuto e che si aspettano di riceverlo. Ma questo dipende da come il sistema dell’accudimento dell’altro, dell’adulto quando eravamo piccoli, ha risposto.

Il sistema dell’attaccamento si attiva e ci muove alla ricerca della nostra figura di attaccamento (mamma/papà da piccoli, partner da adulti). Questo è il movimento che, se soddisfatto, calma il nostro sistema nervoso autonomo quando abbiamo paura. È quello che garantisce la sopravvivenza della specie umana. Se, nei tempi antichi, i neonati si fossero trovati ad affrontare la paura da soli invece che invocando aiuto attraverso il pianto, l’umanità si sarebbe estinta.

Affrontare la paura da soli: l’istinto di sopravvivenza

In questo momento storico l’informazione che arriva dagli esperti, dai dottori, da coloro che ci cureranno e quindi a cui ci dobbiamo affidare dice NO CONTATTI. Dice state lontani, non toccatevi, non abbracciatevi. Dice dovete affrontare la paura da soli. Il nostro sistema nervoso autonomo e alcune parti del nostro cervello invece dicono: “Avvicinati, cerca mamma, stai vicino alla tua figura di accudimento”.

È molto interessante quello che ci chiede questa sfida. Nel bel mezzo di una delle cose più spaventose che queste generazioni hanno affrontato ci tiene in vita ciò che ci ha sempre messi in pericolo. Non la prossimità fisica, non il branco, come millenni di evoluzione hanno selezionato, ma il contrario.
Essere separati e affrontare la paura da soli va contro il nostro istinto di sopravvivenza che ci dice che quando siamo insieme siamo più al sicuro. Tutta la storia dell’umanità è basata su questo. Mi chiedo che effetto avrà questo sui nostri cervelli.

Affrontare la paura da soli si o no? Le fughe verso sud

Le fughe di chi è partito per tornare a casa alle notizie di chiusura si spiegano, secondo me, proprio con questo meccanismo. Non è naturale stare lontani. La mente razionale, per voce dei dottori ci dice una cosa, cioè di stare a casa. Alla notizia di non potersi più connettere una parte del nostro cervello si è spenta e molti di noi sono tornati a casa, alla loro base sicura. È stata una risposta di sopravvivenza. Come tutte le risposte di sopravvivenza di solito sembra molto insensata; guardata però dentro alla storia umana se ne capisce la profonda utilità. I momenti peggiori si vivono e si superano insieme, non si può affrontare la paura da soli.

Affrontare la paura da soli: la voce come ponte

La prima volta che ho sentito parlare di canti dai balconi ho capito che gli umani stavano cercando di accorciare le distanze. Proprio per non affrontare la paura da soli, proprio per continuare a sentire un senso di comunità e di appartenenza qualcuno un giorno si è inventato questo rito. La tecnologia, tanto bistrattata, ha fatto il resto. Nessun social potrà mai rimpiazzare il calore umano, ma può far viaggiare una notizia anche più veloce di un virus.

Così l’Italia si è organizzata e ha usato la voce. E cosa succede nella nostra storia, da piccoli? Quando mamma e bambino cominciano a separarsi? Quando possono usare la voce come ponte per connettersi uno con l’altro. Da una stanza all’altra la mamma rassicura il bambino della sua presenza, dice: “Non sei solo, ci sono anche se non mi vedi”. Da un balcone all’altro un umano dice all’altro: “Ci sono, se hai bisogno, non sei solo. Non dobbiamo affrontare la paura da soli”.

Canti e applausi sui balconi: non dobbiamo affrontare la paura da soli

Quando ho visto le immagini dei camion militari a Bergamo mi sono detta: “Basta, ci vuole silenzio”. Forse è irrispettoso, forse è fuori tempo, forse è addirittura ingiusto. Ma attraverso il canto i miei vicini di casa si sono fatti sentire e questo mi ha dato conforto. Perché la verità è che gli esseri umani cercano sempre connessione, anche quando non lo ammettono nemmeno a se stessi.

Certo, c’è una buona dose di evitamento e negazione nel cantare nonostante le tragedie intorno a noi. Un po’ come l’orchestra sul Titanic. Credo che se avessimo potuto organizzare cerimonie pubbliche in onore dei morti lo avremmo sicuramente fatto. E i balconi non avrebbero cantato. Ma il distanziamento sociale in epoca di covid-19 ci impedisce di farlo e non so se il silenzio sarebbe stato meglio.

Affrontare la paura da soli: il rituale mancato dell’ultimo saluto

Da sempre l’uomo ha costruito rituali per il passaggio del momento della morte. Ha costruito religioni e sistemi filosofici nel tentativo di dare senso all’essere qui. Sistemi che hanno cercato di accompagnare la fine. Questo momento non ci è dato, a causa del covid. Non so come ma so che ci sarà bisogno di trovare rituali collettivi e personali per elaborare i lutti di questo periodo. Infatti se affrontare la paura da soli è contro natura non avere condivisione e significato nella morte lascerà strascichi per lungo tempo.

Il funerale è il rito di accompagnamento, di passaggio. Le religioni ci hanno detto che lo facciamo per i morti, per la loro vita nell’aldilà, ma serve ai vivi. Pensare di fare qualcosa per il nostro caro, di prepararlo, di piangerlo. Di raccontarlo e di onorarlo. Vegliare e salutare i defunti è una parte davvero centrale della nostra umanità. E i funerali sono riti collettivi, che richiedono la partecipazione della comunità. Sono il riconoscimento pubblico del proprio dolore e della propria perdita.

Si dice che “ci si stringe” l’uno all’altro a ricordare e dire addio. Non poterlo fare, gestirlo da soli, affrontare la paura da soli, sostenere la perdita senza l’appoggio della comunità è troppo. Ci sono altre priorità, al momento, ma le istituzioni dovrebbero proprio cercare di costruire al più presto una qualche forma di commemorazione per ognuna di queste persone. Altrimenti noi psicologi ce ne dovremo occupare ancora più a lungo di quanto già non sia.

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